Erano i tempi in cui il banditismo e la tracotanza di alcuni ricchi signori non aveva limiti; l’intera Lombardia era infestata da bravi che, in Valle Camonica, venivano chiamati “buli” e spadroneggiavano dovunque. Basterebbe ricordare quel galantuomo di Scipione del Piano di cui i contadini dicevano fosse “impattato” con il diavolo perché con il suo aiuto era riuscito, perfino, a deviare il corso del fiume Olio. Non meno famigerati furono il Marchi di Toline ed i fratelli Bazzini di Lovere che, secondo le cronache del tempo, seminavano il terrore nella zona di Costa Volpino.
Essi erano armati di un archibugio corto che portavano alla cintura ed erano sempre seguiti da altri quattordici bravi armati di archibugi lunghi.
Il 5 luglio del 1649, un certo Ventura Savoldo uccise con un archibugiata Deleido Deleidi della Costa di Volpino e trovò poi rifugio, come domestico, proprio in casa dei fratelli Bazzini. Successivamente, questi vennero in lotta con Giacomo Bailone un altro bandito che, nel corso di uno scontro a fuoco, fu colpito al fianco dal capitano C. Guarneri di Vezza d’Oglio al servizio dei Bazzini. In possesso di un arma “carica di undici balle”, il capitano vezzese colpì per ben nove volte il suo avversario e nel processo che ne seguì il Consiglio Comunale di Bergamo che vantava come “infallibili e sacrosante le sue deliberazioni”, lo mise al bando.
Purtroppo, neppure la Valgrigna era esente dalle scorrerie di briganti e banditi che, qui come altrove, si rifugiavano nelle grotte naturali delle montagne. Uno dei loro rifugi preferiti, perché quasi inaccessibile a chi non lo conoscesse, era nella Valgiubilina situata a sud-ovest dell’abitato di Bienno. Proprio per la sua speciale posizione, in una delle sue più grandi grotte naturali, avevano trovato rifugio una dozzina di briganti provenienti dalla Valtrompia, dalla Valsabbia, dalla Valcamonica e dal confinante territorio bergamasco. Erano briganti di professione, molto ben conosciuti, temuti dalla gente per le loro malefatte e ricercati dalla gendarmeria alla quale, però, era pressochè impossibile scovarli perché in quella valletta c’erano grotte e passaggi sotterranei chiamati “gande” che si credeva sbucassero in Valtrompia. Essi vivevano in quelle caverne
che conoscevano benissimo e che usavano anche per nascondere tutto ciò che riuscivano a rubare nei loro assalti notturni. Se succedeva di incontrarne durante la giornata, le donne ed i bambini si rifugiavano immediatamente in qualche casa perché avevano molta paura.
Indossavano pantaloni alla zuava, camicia felpata a grandi quadri, un grande fazzoletto variopinto attorno al collo, un largo mantello, un cappellaccio a larghe falde sella testa e calzavano degli scarponi di alta montagna. Camminavano stringendo in una mano un grosso e nodoso bastone, un archibugio a tracolla ed un pugnale al fianco su cui appoggiavano l’altra mano pronta per qualsiasi evenienza. Quello del XVII secolo fu un periodo particolarmente funesto per la Valgrigna, la quale era continuamente percorsa e minacciata da questi uomini che spesso lavoravano per conto di qualche signorotto e godevano della sua protezione.
I valgrignini, gente forte e coraggiosa, decisero tuttavia di non stare a guardare passivamente e parecchi di essi si prepararono ad affrontarli nel caso in cui le loro case, le loro terre ed i loro famigliari fossero stati attaccati da quei malfattori. L’occasione si presentò verso la fine dell’autunno, quando i ribaldi decisero di compiere un’ultima scorribanda prima di ritirarsi per l’inverno. Vedendoli passare a cavallo, gli abitanti della pittoresca vallata percorsa dal torrente Grigna e dai suoi numerosi affluenti, si ritirarono nelle loro case con un triste presagio nel cuore. La notizia dell’arrivo dei banditi, però, si diffuse in un baleno. Non c’era tempo da perdere. Bisognava intervenire subito per difendere le famiglie, le case e le provviste fatte per superare l’inverno ormai prossimo.
Ed i coraggiosi giovanotti biennesi, scelti tra quelli più ardimentosi si prepararono ad attaccare il gruppo dei pericolosissimi masnadieri in un punto strategico di Bienno fuori da una delle porte dell’antico castello. Ben nascosti dietro le piante ed alcuni grandi massi di granito, i giovani biennesi stettero in agguato decisi a sgominare quella banda di malviventi. Ed ecco finalmente, verso il tramonto, comparire sui loro veloci cavalli ed armati di tutto punto, i cavalieri della nuova apocalisse. I biennesi, obbedendo agli ordini del loro capo Giovanni il Bello, li lasciarono alquanto avvicinare poi, improvvisamente, saltarono fuori dai loro nascondigli e sbarrarono loro la strada costringendoli ad accettare lo scontro.
Colti di sorpresa, i briganti ebbero un momento di sbigottimento e si sbandarono; ma, dopo qualche minuto, tornarono per attaccare vigorosamente e con più rabbioso impeto. Ben presto la battaglia divenne aspra e sanguinosa con diversi feriti. Giovanni il Bello dava l’esempio, infondendo forza e coraggio ai suoi compagni. Rimasto però, a sua volta, gravemente ferito ad una coscia l’impavido difensore ordinò ai suoi compagni l’ultimo disperato assalto ai malviventi per sbarrare loro la strada che portava al paese. Gli uomini biennesi si gettarono con rinnovato vigore nel combattimento ed i ladroni furono costretti a spronare i cavalli e tornare di gran carriera verso il loro rifugio di montagna. Con tanta rabbia in corpo per lo smacco subito e pensando sempre a come avrebbero potuto vendicarsi, quell’anno cercarono di svernare
nella malga di Campolungo dove, da alcuni anni, viveva un pastore. Fingendo di essere suoi amici, i briganti trovarono il modo di mangiare, bere e dormire alle spalle del povero uomo che vedeva calare sempre più vistosamente le sue provviste di formaggio, polenta, patate, latte e vino ma non vedeva mai arrivare il rifornimento di vettovaglie che gli era stato promesso.
Qualche volta essi si allontanavano dalla malga, ma andavano solamente a controllare la vecchia miniera dove, in una grotta, avevano nascosto marenghi d’oro e gioielli che avevano rubato nei paesi dove avevano commesso le loro ruberie. Mangiavano, giocavano e bevevano e poi, con il passare dei giorni, cominciarono anche a litigare sempre più furiosamente fino al punto che, una sera, fecero ricorso ai coltelli ed agli archibugi. Ben presto, nove di loro rimasero uccisi perché non si trovarono d’accordo sulla spartizione del bottino che avevano raccolto saccheggiando case e chiese della Valle.
Tornata la bella stagione, i tre briganti rimasti tornarono a visitare i paesi della Valle Camonica, della Valtrompia e della Valsabbia senza dimenticare di fare qualche puntata nel territorio bergamasco dove, però, sapevano di correre molti più rischi. Erano diventati, comunque, anche più cattivi e la gente, sempre impaurita, si ritirava nelle stalle, nelle case, nei primi nascondigli che trovava e si convinceva sempre di più che fossero maledetti da Dio perché si erano accoppati tra di loro. Poi, con il passar del tempo, ne rimase soltanto uno il quale decise di andare a trascorrere i suoi ultimi anni in un paese della Valtrompia, ma solo in punto di morte rivelò la sua identità.
Finalmente finito l’incubo dei briganti, la gente della Valgrigna ricominciò ad andare in montagna ed a ripercorrere strade e sentieri che aveva abbandonato, per paura, già da alcuni anni. Ma quando i biennesi passarono davanti alla grotta della Valgiubilina o a quella della miniera di Campolungo, udiva delle voci e dei lamenti. Allora, in una notte di luna piena, due coraggiosi giovanotti decisero di andare per scoprire di cosa si trattasse. Arrivati sul posto, piantarono una croce ed invocarono gli spiriti dei ladroni morti; dopo qualche attimo di silenzio assoluto, udirono chiaramente la voce di uno di essi e gli chiesero dove fosse la grotta del tesoro. Fidandosi delle parole dello spirito, i due giovanotti andarono, iniziarono a scavare e, poco dopo trovarono il tesoro.
Dopo aver riempito alcuni sacchi, li caricarono e li portarono in paese per consegnarli al parroco. Il buon sacerdote nel vedere tutta quella ricchezza rimase stupefatto e volle conoscerne la provenienza.
“E’ il tesoro che avevano nascosto i briganti della Valgiubilina”, risposero i due bravi giovanotti; “noi l’abbiamo trovato in una grotta della miniera di Campolungo”.
Nell’udire quelle parole, il parroco decise immediatamente di andare a benedire quel luogo e lo seguì un gran numero di fedeli. Così, lassù, tra le alte vette ritornò la pace ed a ricordo dell’avvenimento fu piantata una croce mentre, tornato dalla montagna, il buon parroco chiamò la gente del paese e tutti insieme decisero di fondere il tesoro per ricavarne un ostensorio ed altri oggetti sacri.